Nel campo delle aggregazioni dei piccoli comuni, Bologna negli anni si è guadagnata un ruolo di riferimento molto importante; nell’Ateneo cittadino lavora un gruppo di ricerca di cui fa parte Alessandro Pirani, 36 anni, emiliano, dottore di ricerca in Politiche pubbliche del territorio allo IUAV di Venezia.
Pirani lavora alla Scuola di specializzazione in pubblica amministrazione dell’Università di Bologna, ed insieme ad alcuni colleghi si occupa di politiche pubbliche nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria e del riordino territoriale.
Al suo attivo ha già molte esperienze in materia di fusione tra piccole realtà amministrative, tra cui spicca quella recente della Val Samoggia, a ovest di Bologna: qui i sindaci di cinque comuni hanno dato vita ad un’unica entità municipale da circa 30mila abitanti, la più grande fusione finora realizzata in Italia.
“Una prima fase storica della cooperazione tra istituzioni – puntualizza Pirani – ci ha portato ad affiancare la costituzione di qualche decina di unioni di comuni a livello nazionale, specialmente nel centro-nord. Lo scenario a cui stiamo assistendo si è negli anni notevolmente evoluto: dopo aver condiviso l’aggregazione di servizi e di attività in vari comuni, molti centri ora stanno valutando di fare il salto definitivo passando alla fusione”.
Le prime esperienze di progetti di fusione in Emilia Romagna risalgono al 2009; da queste parti sono nati una ventina di progetti, alcuni dei quali già giunti a buon fine.
“Quella della fusione è una tendenza esplosa di recente – continua Pirani -. Per intenderci, dal secondo dopoguerra al 2001 in Italia ci sono state soltanto otto fusioni. Negli ultimi 12 anni, abbiamo assistito ad un’escalation di esperienze, che oggi hanno dato vita ad oltre una decina di progetti”.
Secondo Pirani, le ragioni di questo interesse sono riconducibili ad un mix di fattori tra i quali quello scatenante è certamente quello della necessità finanziaria.
“Di fronte al depotenziamento delle proprie funzioni di governo e di una ridotta autonomia finanziaria, molte amministrazioni hanno compreso che l’unica strada da percorrere è la razionalizzazione delle spese, da realizzare attraverso la fusione”.
Una razionalizzazione quella indicata da Pirani, che conduce ad una maggior capacità di produrre politiche compatte ed efficaci per il territorio.
La tappa della fusione poi diventa quasi d’obbligo per quei centri che attraverso l’istituto dell’unione hanno già testato l’esperienza condivisa dei servizi.
Sull’argomento (“Dall’Unione alla fusione dei Comuni”) il gruppo di ricerca ha pubblicato di recente una lunga monografia sulla rivista “Le istituzioni del federalismo” edita da Maggioli. “L’unione tra i comuni, cosa ben differente dalla fusione, rappresenta una realtà complessa e costosa in termini organizzativi, al pari di un qualsiasi contratto tra individui o tra pluralità di soggetti. Presuppone che le regole definite a monte siano forti e precise, come quelle che regolano ad esempio la durata della turnazione del presidente o il ruolo dei consigli comunali, pena il permanere di logiche individuali tra gli Enti che ne fanno parte o nella peggiore delle ipotesi una percezione di scarsa democraticità tanto per gli elettori quanto per gli eletti. Il punto è che quando più comunità amministrate funzionano sempre più in modo unitario, diventa necessario ‘fare il salto’”.
Pirani fornisce anche qualche esempio del perché sia utile farlo ora. Ad oggi, ai comuni che decidono di strutturarsi in un’unica realtà municipale, lo Stato riconosce per dieci anni un trasferimento maggiorato del 20% rispetto alle spettanze certificate nel bilancio 2010, attingendo queste risorse da un fondo appositamente creato dal Ministero degli Interni. A queste si sommano le diverse forme di incentivazione che le Regioni stabiliscono con proprie Leggi.
“Siamo in un momento storico molto favorevole – conclude Pirani -, soprattutto per quelle realtà che intendono muoversi per tempo, anticipando quella che in molti altri paesi europei è stata una decisione imposta dall’alto”.
Oltre confine, infatti, i casi non si contano: Svizzera, Finlandia, Danimarca, Inghilterra e Francia hanno già mosso i primi passi alcuni anni fa, calando dall’alto un nuovo riassetto istituzionale ai propri municipi, stabilendo d’ufficio quanti e quali dovessero essere.
Nel caso della nostra Provincia, la secolare capacità di “autogoverno comunitario” espressa anche dallo Statuto Comunitario per la Valtellina deve offrire gli strumenti per una riflessione matura e ponderata, che consenta di definire un nuovo assetto istituzionale più consono rispetto alle attuali modalità di vita sul territorio, senza sacrificare quel senso di appartenenza e di radicamento che ne costituiscono una componente essenziale.
Società Economica Valtellinese